Violenza sulle donne, la sociologa Bartholini: “L’antidoto è la conoscenza sana e la capacità di diffonderla”

In questi giorni si è acceso un dibattito locale sui social sul tema della violenza di genere. L’occasione è stata il commento del presidente di un’associazione – Lilli Vento del Panathlon club di Trapani – su un’installazione collocata, lo scorso 25 novembre, all’interno della Villa comunale “Margherita” che raffigura un uomo in ginocchio nell’atto di chiedere perdono alla donna, alle donne vittime della violenza maschile.

Abbiamo letto commenti di diverso segno e genere e, posto che di una cosa si possa dire tranquillamente “mi piace” o “non mi piace” da parte di chicchessia, ci interessa invece, capire quanto iniziative simili siano efficaci e producenti rispetto al messaggio che intendono veicolare e ai temi su cui vogliono sollevare la riflessione dei cittadini. Abbiamo deciso, quindi, di interpellare un’esperta indiscussa di queste tematiche, la sociologa trapanese Ignazia Bartholini.

Professoressa, quanto incidono la cattiva comunicazione e/o informazione sulla costruzione degli stereotipi di genere e su un errato approccio al contrasto della violenza di genere?
L’informazione, quella veloce, pressata dall’esigenza di attirare un pubblico di ascoltatori o lettori più ampio possibile, fa spesso un cattivo servizio, perché si limita a rispecchiare il pensiero generico-generalista della maggioranza poco qualificata e, soprattutto, poco interessata all’approfondimento e alla verifica di quanto gli viene propinato. Gli stereotipi sono parte di un “brodo primordiale” preparato da coloro che gestivano il potere e che, per secoli, sono stati solo uomini. Se ne deduce facilmente come una classe dominante maschile praticasse comportamenti improntati al “dominio maschile” (Bourdieu 1989) sulle donne, sia in forma esplicita che indirettamente, legittimandone e rilegittimandone gli stereotipi strumentalmente più confacenti.

Si definisce il “femminicidio” come delitto passionale. Qualcuno, leggendo numeri e statistiche pubblicate online ha asserito che il 30% dei femminicidi avviene per mano di donne. Ma, in realtà, senza negare che ci sono uccisioni di donne perpetrate da donne, è corretto, in questi casi usare il termine femminicidio? E se no, perché?
Non è corretto. La parola femicide [ndr. in Italiano femminicidio] è attestata per la prima volta in inglese nel 1801 in un’opera di John Corry. Il suo primo significato indicava l’uccisione di una donna come calco da homicide. Il termine lo si ritrova più tardi in uno scritto di William MacNish (1827), in cui viene indicato l’uccisore di una giovane donna con il termine femmicida e poi nel dizionario giuridico di John J. Smith Wharton (1848) con il significato di the killing of a woman.
Nei primi anni Ottanta del secolo scorso la femminista Diana E.H. Russell racconta di aver sentito per la prima volta nel 1975 la parola femicideda un conoscente che le raccontava di uno scrittore americano, Carol Orlock, che stava preparando un’antologia sul femicide, antologia che però non fu mai pubblicata. Russell sottolinea che la parola le risuonava nella testa come la più adatta per definire i delitti sessisti a opera di maschi contro femmine, fino a quando nel 1976, all’International Tribunal of Crimes Against Women, tenutosi a Bruxelles, lei stessa andò a riferire di casi di femicide. Nel 2001 Diane Russell e Roberta Harmes definirono il femicide come «l’uccisione di femmine da parte di maschi perché sono femmine». Lagarde amplia più recentemente la definizione di femicide offerta da Russell a tutte quelle situazioni in cui la violenza è tale da provocare l’annientamento fisico o psicologico della personalità femminile. Per una disanima più ampia mi permetto di rinviare a “Violenza di genere e percorsi mediterranei”, un volume che ho curato qualche anno fa per la Guerini e Associati.

Allo stesso modo, lei crede che si possa oggi parlare di emergenza “maschicidio” e in quali incidenze e termini?
Se, indicando il fenomeno del “maschicidio”, ci riferiamo alle statistiche che qualche quotidiano a diffusione nazionale ha recentemente pubblicato, diamo rilevanza ad un’errata relazione fra il dato – l’uccisione di persone di genere maschile – e la causa – del tutto diversa e molto più generica rispetto a quella del femminicidio, che connota una specifica tipologia di abuso nei confronti delle donne.

Il termine femminicidio e le normative in merito, le misure a prevenzione, la decostruzione di una cultura patriarcale possono, secondo lei, condurre ad una misandrìa?
No, se non in casi sporadici e individualmente circoscrivibili da cui non sarebbe possibile registrare un vero e proprio fenomeno. La decostruzione è un atto riflessivo che prevede il tempo della decantazione. Chi consapevolmente riesce a decostruire un paradigma dagli effetti dannosi, non agisce d’impulso; una società che si evolve in genere non dovrebbe ripetere gli errori e i delitti da cui prende le distanze.

La violenza di genere può essere trattata, nell’analisi del contesto, nella codifica, nel metodo, come “violenza” in generale?
No, l’art. 1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 è esplicita in tal senso e indica «qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa provocare danno fisico, sessuale o psicologico, incluse le minacce di violenza, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà personale, sia pubblica o privata […] una violenza nei confronti di una donna, per il solo fatto di essere donna». Il contesto indica una relazione fra generi diversi e apre ad una casistica ampia di vessazioni all’interno di dinamiche FRA i generi.

Cos’è la Sindrome di alienazione parentale e come incide nella tutela delle vittime di violenza di prossimità nelle cause di separazione?
È una delle forme più subdole della violenza di genere che si realizza all’interno di contesti di prossimità nei confronti del soggetto più debole – di solito i figli, da parte di uno dei genitori – e che distrugge il rapporto fra figlio/i e genitore alienato, violando il cosiddetto diritto alla bigenitorialità. In sostanza, il genitore che per motivi diversi – maggiore potere economico, maggiore capacità di convincimento nei confronti del minore o maggiore vicinanza fisica – riesce ad alienare, cioè a fare diventare “altro” il genitore a cui vuole sottrarre il figlio stesso, lo rende vittima della sindrome di cui stiamo parlando. Meccanismo subdolo e perverso che fa uso della violenza di genere (violenza contro il partner di genere diverso) all’interno di una più ramificata violenza di prossimità (che fa sì che il minore veda nell’altro, in questo caso il genitore “più forte”, la persona più vicina, più fiduciariamente credibile, quella da accogliere e da cui farsi accogliere a patto di respingere ed escludere il genitore più debole). Il “proximus” in questo caso è proprio il nemico prossimo, il lupo ben travestito.

Fermo restando che tutti dobbiamo interessarci al problema e partecipare alla costruzione di una nuova cultura di parità, anche questo tema sembra affascinare i tuttologi del web: secondo lei, sono sufficienti le buone intenzioni per occuparsi costruttivamente di violenza di genere? Quanto sono importanti le competenze su queste tematiche nella formazione e nell’informazione?
Inutile ribadire che occorrono buoni maestri, persone sane in primis, e preparate per svolgere il ruolo di insegnanti, maestri, intellettuali nella società, nel senso che la conoscenza assume dall’interno il principio del “neminem ledere”. Se, invece, ciò che so è strumento di segregazione e di violenza, allora io stesso devo gettare alle ortiche un sapere deleterio. In ogni caso io sono fermamente convinta che l’unico antidoto alla violenza è la conoscenza “sana” e la capacità di diffonderla con ogni strumento.

Senza voler esprimere un giudizio di merito sull’installazione alla Villa “Margherita” di Trapani, come legge il fatto che, ancora una volta, quando si parla di violenza sulle donne, vengano tirati in ballo gli uomini e capovolti i ruoli trasformando, questi ultimi nelle “vere” vittime della società? Insomma, qualcuno potrebbe pensare che vogliano “prendersi la scena” persino nella morte…
Come forme di narcisismo malato di chi, a tutti i costi, vuole stare sul palco, anche quando non ne avrebbe titolo.