Mazara, i pescatori liberati ai Carabinieri: “In Libia anche una finta fucilazione”

È stato un racconto di vessazioni e umiliazioni continue subite, quello fatto ieri nella Caserma dei Carabinieri di Mazara del Vallo dai pescatori tornati a casa dopo la prigionia in Libia. I marittimi vengono sentiti nell’ambito dell’indagine aperta dalla Procura di Roma sulla loro detenzione a Bengasi, roccaforte del generale Haftar.

“Un giorno – riporta oggi un articolo su Repubblica.it – ci hanno fatto mettere di spalle, tutti in fila contro un muro. E hanno iniziato a urlare, abbiamo temuto il peggio. Poi hanno sparato in aria”, ha raccontato uno di loro ai carabinieri del Ros.

“Facevano segno che mi avrebbero tagliato la gola se non facevo tornare i due pescherecci che erano riusciti a scappare”, ha raccontato ancora il marittimo, “Un libico ha cominciato a picchiarmi, con schiaffi in faccia e colpi alle gambe. Per tre giorni, ho zoppicato”. Il pescatore siciliano è stato anche obbligato a chiamare via radio i compagni sfuggiti alla cattura per farli tornare indietro. I libici credevano che fosse il comandante del “Natalino” e, ha riferito il marittimo, “volevano vendicarsi su di me e sul comandante dell’altra imbarcazione fuggita, l’Anna Madre”.

Un altro dei pescatori – si legge ancora nell’articolo – ha raccontato di quando i miliziani li hanno trasferiti da una cella buia a una villa: “Pensavamo che qualcosa si fosse sbloccato nella trattativa e, invece, no era solo per farci una fotografia e spedirla in Italia, così potevano dire che ci trattavano bene”.
Le audizioni dei pescatori – che come abbiamo già raccontato ieri sono risultati tutti negativi al coronavirus – proseguiranno anche oggi davanti ai Carabinieri.

Intanto, dall’albergo in cui sono ospiti a spese dell’armatore, anche i due pescatori indonesiani che facevano parte dell’equipaggio dell’Antartide parlano di vessazioni e maltrattamenti da parte dei carcerieri. “Ogni mattina, poco dopo le sei, battevano i pugni forte contro la porta per svegliarci. Non la smettevano più. Era un tormento. Quando gli chiedevamo quando avremmo lasciato la prigione allargavano le braccia e ci dicevano Solo Dio lo sa. Poi andavano via. Ho avuto tanta paura. Non tanto di morire – dice uno di loro – ma di non potere più tornare nel mio Paese. Non ci hanno mai picchiato – prosegue – però ci umiliavano e ci facevano angherie, anche sul cibo”. Il loro contratto di lavoro è scaduto a fine novembre e, una volta terminata la quarantena, torneranno in Indonesia.

Ornella Fulco

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