“Lo chiamavano Kukoc” di Andrea Castellano

TRAPANI. Qualcuno si era spinto ad affibbiargli un soprannome impegnativo: il “piccolo Kukoc”. In quei primi anni Novanta, pesantissimo: Kukoc, poco più che ventenne, era già un totem della pallacanestro europea. Eccitatissimi, lo aspettavamo al Palagranata in quella che sarebbe stata la partita d’esordio in casa della Pallacanestro Trapani in A-1. Ma Kukoc, infortunato, non venne, e quel match restò nella memoria solo per la sberla di Mannella a Vinny Del Negro, l’altro astro di quella formidabile Benetton Treviso.

A quel tempo il Palagranata, seppur fisicamente lontano dal centro della città, era il centro della città. Un salto in quel palasport brutto fuori e bellissimo dentro, lo si faceva quasi ogni giorno. C’era l’allenamento della prima squadra, c’era sempre qualche amico con cui incontrarsi, c’era soprattutto Pino Cardella che ti riempiva di fumo ma ti rallegrava la giornata.

Non fu difficile, dunque, anticipare di un paio d’ore il quotidiano pellegrinaggio al Palagranata, per assistere ad un allenamento della squadra giovanile in cui giocava il “piccolo Kukoc”. In effetti, non occorreva essere raffinati intenditori di basket per rendersi conto che si trattava d’un piccolo fenomeno. Magrissimo, braccia infinite, capace di palleggiare come un play pur essendo destinato a diventare un’ala piccola, come Kukoc, appunto. E poi il tiro, la visione di gioco. Aveva più o meno sedici anni, e la scimmia del basket ben piantata sulle spalle. Quella che lo faceva arrivare più presto dei suoi compagni all’allenamento, ed uscire dal campo per ultimo, lì a tirare e tirare. Fino ad attendere l’ingresso sul parquet della prima squadra, in modo da farsi invitare ad unirsi al riscaldamento dei grandi.

Insomma, il “piccolo Kukoc” sembrava davvero un predestinato. Il mercato dei ragazzini era solo agli albori, se ne avevi uno bravo potevi provare a crescerlo in casa senza vedertelo sfilare da sotto il naso da un club danaroso. Né sarebbe mai saltato in mente ai genitori dei primi anni Novanta di telefonare a quel procuratore lì che ti piazza il giovanotto, e ci fai pure qualche soldino.

Il ragazzo però aveva un problemino da niente che stava diventando una vera seccatura: mani che afferravano il pallone come fosse un’arancia, ma dita fragili, fragilissime. Come fossero di vetro, un giorno sì e l’altro pure, una “castagna”, una botta lieve, ed erano infortuni in serie. Dolorosi, ma non sufficienti a fermarlo: steccatissimo, ma sempre in campo a correre.

Il giorno dopo un’altra brutta botta alla mano, Kukoc (da adesso lo chiameremo così, senza “piccolo” e senza virgolette) non va a scuola ma in ospedale. Da solo e in autobus. L’ortopedico, stanco di vedere ogni cinque minuti quel bimbo gigante entrargli in ambulatorio con una mano fasciata, decide di guardargliela un po’ meglio, quella mano. E la trova strana: dita lunghissime, affusolate come bacchette. Gli viene in mente una brutta cosa, scruta quel bimbo dagli occhi bellissimi e alza la cornetta del telefono. Parlotta un po’, riattacca e dice a Kukoc: “Vieni con me, andiamo a fare un esame in cardiologia. Non ti preoccupare, solo un controllo per scrupolo”. Kukoc è disorientato, ma non può che docilmente seguire il medico. S’aspettava radiografia e stecca, a scuola a seconda ora, di pomeriggio al palazzetto a palleggiare e tirare con l’altra mano, che male non fa, dice sempre il coach. Invece, eccolo disteso su un lettino, con apparecchi strani attorno.

Quando tutto finisce, non lo lasciano andare. Anzi, il primo medico, quello che non ne poteva più di dovergli steccare le dita in continuazione, gli chiede il numero di telefono di papà.

“Buongiorno, signor Kukoc. La chiamo dall’ospedale, ascolti, ho qui suo figlio, queste dita fragili non mi convincono. Gli abbiamo fatto degli esami in cardiologia, c’è qualcosa che non va nel cuore. Che c’entrano le dita col cuore? C’entrano, c’entrano, purtroppo. Bisogna farne altri d’esami, però, per capire meglio. Se può venire qui le spiego. Allora l’aspetto, la saluto signor Kukoc, ah un attimo, dimenticavo. Suo figlio, almeno per ora, non può più giocare. Di più, non deve nemmeno correre. Se perde l’autobus gli dica di non corrergli dietro, che prenda l’altro. Ma tutte queste cose gliele racconta lei, d’accordo?”

Kukoc per un po’ sparì. Andò a fare un sacco di controlli noiosissimi in ospedali al nord. I suoi compagni, il coach, i dirigenti, i grandi della prima squadra, tutti lo aspettavano. Ma quando tornò, col campionato giovanile già cominciato, lui non poteva giocarlo. Anzi, se perdeva l’autobus doveva aspettare il prossimo. Il coach gli disse: “Dai, resta con noi. Vieni in panchina, fai lo scout, parti con la squadra quando andiamo in trasferta, magari fra un po’ tutto si sistema, oppure puoi fare il corso d’allenatore”. Kukoc disse di sì, ma non era convinto, si vedeva. Gli occhi gli brillavano quando si metteva a tirare i liberi, questo da fermo lo poteva fare. Anche senza allenamento vinceva sempre lui.

Per qualche tempo andò avanti così, ma non poteva durare. Un giorno salutò tutti e si eclissò. Anch’io, da allora, non l’ho più visto. Spero sia stato, e sia, felice.

Andrea Castellano

(Questa storia, vera di base ma un po’ romanzata, è rimasta conservata in un cassetto della mia memoria per tanti anni. E’ riemersa prepotentemente la scorsa estate, riportata alla luce da un analogo fatto di cronaca. Ho voluto raccontarla perché la storia del ragazzo che tutti chiamavano Kukoc mi pare bella e autentica, essendo la passione, la buona e la cattiva sorte, l’essenza della vita e dello sport).