E’ nata dall’esposto presentato da un’azienda nel settembre 2017 al Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Palermo, su una serie di criticità rilevate nella gara per l’affidamento della fornitura di “servizio di lavanolo” per le Aziende del Sistema sanitario regionale, l’indagine “Sorella Sanità” che ha portato stamane all’esecuzione di dodici misure cautelari tra cui l’arresto del direttore generale dell’Asp di Trapani Fabio Damiani che è stato condotto in carcere.
I finanzieri hanno, così, avviato approfondimenti investigativi sulle gare bandite dalla CUC regionale della Sicilia e nei confronti di Damiani che, oltre ad essere il dirigente responsabile della Centrale Unica di Committenza, era anche il responsabile unico della procedura di gara in questione, gara che fu successivamente annullata dal TAR Sicilia a seguito del ricorso presentato dalla stessa azienda.
Le articolate attività di intercettazione, osservazione, pedinamento e controllo, le verifiche finanziarie e l’acquisizione di documenti hanno consentito agli investigatori delle Fiamme Gialle di individuare una serie di vicende, di particolare complessità, stratificatesi nel tempo, da cui emergeebbe l’infedeltà dei dipendenti pubblici e la sistematica distorsione dei loro doveri a vantaggio degli interessi economici di determinati soggetti imprenditoriali.
Figura centrale e perno di tutta l’indagine è – secondo gli inquirenti – l’avvocato palermitano Fabio Damiani che, attraverso un “patto di ferro” stabile e duraturo nel tempo (tale da consentire la configurazione di una vera e propria associazione a delinquere) con il faccendiere Salvatore Manganaro, avrebbe pilotato e condizionato tutte le gare di appalto, del valore anche di centinaia di milioni di euro, giunte alla sua attenzione.
Damiani, inoltre, si sarebbe dimostrato “alla spasmodica ricerca” di appoggi politici per ottenere un nuovo incarico (arrivato nel dicembre 2018 con la nomina a direttore generale dell’Asp di Trapani), ragione per cui si era rivolto ad un imprenditore e ad un deputato regionale che, a sua volta, gli aveva chiesto appoggio per un’impresa nella gara per i servizi di pulizia del valore di oltre euro 227 milioni di euro.
Anche a causa dell’entità degli importi complessivi delle tangenti concordate con le imprese, commisurate per Damiani e Manganaro in percentuali sul fatturato, non era possibile riscuotere in contanti le somme pattuite che erano anche collegate all’esecuzione negli anni dei contratti e, per questo motivo, era stato attivato un meccanismo di copertura attraverso formali rapporti imprenditoriali e relativa fatturazione.
Per gestire questo complesso organizzativo e la contabilità delle tangenti, Manganaro utilizzava insieme a Damiani un sistema informatico denominato NAS che costituiva – secondo gli inquirenti – non solo il luogo sicuro per l’archiviazione di dati e documentazione delle loro attività illecite ma anche una piattaforma di scambio di informazioni e documenti con i rappresentanti delle ditte corrotte. Più volte Damiani si era dimostrato preoccupato del caricamento dei files più scottanti sul NAS e rimproverava a Manganaro che, anche se poi li cancellava, qualcuno poteva sempre riuscire a recuperarli in caso di indagini. Lì c’era tutta la loro “vita”, sottolineava il faccendiere agrigentino, con tanto di battute – nelle conversazioni intercettate dalle Fiamme Gialle – sugli “anni di galera” che, in caso, si sarebbero fatti.
L’immagine più efficace della sinergia esistente tra i due indagati la fornisce, però, lo stesso Damiani, quando in una conversazione del 5 dicembre 2018 con un altro indagato e riferendosi alla gara dell’Asp per il servizio di manutenzione delle apparecchiature elettromedicali, si definì la “mano armata” di Manganaro all’interno dell’amministrazione pubblica. I due usavano tra loro un linguaggio in codice per garantire la non tracciabilità degli interlocutori e dell’oggetto dei dialoghi, in ossequio alle regole di “assoluta e maniacale prudenza” che li ossessionavano: entrambi sono stati più volte ascoltati mentre tra loro accennavano a possibili indagini giudiziarie dalle quali si dovevano guardare. Manganaro chiamava Damiani “amore” e lo indicava, quando ne parlava con altre persone, chiamandolo la “sorella”, come lo stesso manager gli aveve detto di fare, gli forniva sim card riservate e spedite con mittente anonimo per poter comunicare in condizioni di riservatezza una volta avuto sentore di possibili indagini.
Nella “storia criminale” di Fabio Damiani ricostruita dagli inquirenti c’è anche il capitolo delle minacce e delle pressioni esercitate su di lui dal direttore generale dell’Asp di Palermo, Antonino Candela: ventilando la mancata conferma del suo incarico e utilizzando altri metodi che gli inquirenti definiscono “chiaramente intimidatori”, lo avrebbe indotto, infatti, ad adottare, secondo gli interessi di un’impresa, un provvedimento che attestasse la maggiore convenienza per l’amministrazione sanitaria della procedura CUC al posto di quella autonomamente definita dall’Asp palermitana.
Lo stesso Damiani, in alcune conversazioni telefoniche intercettate, con la moglie e con un sindacalista, diceva di sentirsi come un “topo in gabbia” e di essere “ricattato” dal direttore generale.
Sempre dall’intercettazione di sue conversazioni gli investigatori hanno scoperto che tale operazione – consistente, appunto, nell’adesione dell’Asp alla procedura CUC – grazie alla differenza dei ribassi presentati dall’azienda e alla sostanziale identità di prestazioni avrebbe prodotto un aumento considerevole dei costi a vantaggio dell’impresa aggiudicataria. L’obiettivo ultimo perseguito da Candela, tramite la “lettera” insistentemente richiesta a Damiani, sarebbe stato, quindi, proprio quello di favorire l’azienda. E, alla fine, le resistenze del manager furono vinte e la nota scritta e firmata.